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Una mezza novità e un chiarimento per il lavoro a part-time

Dott. Villiam Zanoni

pensioniprevNel mezzo dell’estate c’è stata una notizia ripresa da diversi organi di stampa che è stata presentata come un elemento di grande novità e che anche in diverse Pubbliche Amministrazioni ha catturato l’attenzione: approfondito l’argomento scopriremo quanto non sia una novità e soprattutto quanto non riguardi la Pubblica Amministrazione. Mi riferisco ad una sentenza pronunciata dal Tribunale di Padova (la n° 473 del 5 luglio 2016) che ha condannato l’INPS a valutare ai fini pensionistici in un certo modo la contribuzione derivante da un rapporto di lavoro part-time verticale su base annua (cosiddetto “ciclico”).

Ora la prima cosa da sottolineare è questa: è vero che l’INPS è ormai diventato il gestore unico del nostro sistema previdenziale, ma al suo interno sono rimasti tanti compartimenti stagni, generati dai vari processi di armonizzazione e di incorporazione, all’interno dei quali continuano a trovare applicazione quasi tutte le preesistenti normative riferite ai tre macro comparti (il regime dell’AGO che include anche lavoratori autonomi e gestione separata, il regime dei fondi sostitutivi e il regime dei fondi esclusivi), a loro volta frazionati in una pletora di ex gestioni particolari.

Quando quindi qualcuno chiama in causa l’INPS, la prima cosa da fare è comprendere a chi ci si riferisce, altrimenti si rischia di prendere qualche cantonata.

La vicenda della sentenza citata in premessa è quindi esemplare, ma per comprenderla occorre fare qualche passo indietro fino al momento in cui il part-time è diventato una realtà per il nostro paese.

Come è noto, la prima volta che il nostro legislatore regolamentò il part-time fu in occasione della emanazione del decreto legge n° 726/1984, convertito in legge n° 863/1984, all’interno del quale fu inserito l’articolo 5, il cui comma 11 regolamentava il calcolo della pensione prevedendo che la contribuzione a part-time dovesse essere riproporzionata in relazione al rapporto fra l’orario a part-time e l’orario a tempo pieno.

Al di sopra di tale nuovo impianto rimaneva sempre la modalità di accredito della contribuzione quantificata in settimane che venivano coperte a fronte del fatto che le stesse fossero retribuite, ma anche a fronte del fatto che la retribuzione media settimanale non fosse inferiore ad un minimale parametrato al 40% del trattamento minimo di pensione (oggi tale limite è pari a 200,76 euro settimanali).

Fra l’altro, nel momento in cui fu recepita la direttiva n° 97/81/CE della Comunità Europea, relativa all'accordo-quadro sul lavoro a tempo parziale, con il Decreto legislativo n° 61/2000 venne semplicemente trasfuso l’originario articolo 5 all’interno del nuovo articolo 4 senza apportare alcuna modifica.

Tutto questo nel regime della Assicurazione Generale Obbligatoria.

Qualche anno dopo la legge n° 554/1988 regolamentò il part-time per i lavoratori del settore pubblico, all’interno della quale l’articolo 8 disponeva che ai fini del diritto a pensione il periodo di lavoro a part-time era comunque considerato utile per intero, mentre ai fini della misura lo stesso periodo sarebbe stato riproporzionato in relazione al rapporto fra l’orario a part-time e l’orario a tempo pieno, fermo restando che si dovesse comunque prendere a riferimento la retribuzione virtuale intera.

Tale assurda differenza si manifesta in tutta la sua negatività in particolare nei rapporti di lavoro a part-time verticale su base mensile o su base annua, nel momento in cui per le lavoratrici o i lavoratori del settore privato si vanno a generare delle scoperture contributive relative a delle settimane in cui non viene erogata alcuna retribuzione.

L’abbiamo già fatto altre volte, ma vale la pena riproporre le differenze.

Supponiamo che due lavoratrici assunte a tempo indeterminato, una del settore privato e una del settore pubblico, abbiano un contratto a part-time al 50% e che questo si realizzi con una attività lavorativa che viene svolta per 6 mesi a tempo pieno e per altri 6 mesi senza alcuna attività.

Ebbene, nel settore pubblico quei 12 mesi di lavoro varranno comunque 360 giorni ai fini del diritto alla pensione, mentre ai fini del calcolo retributivo peseranno per 180 giorni rapportati alla retribuzione virtuale intera.

Nel settore privato quei 12 mesi avranno una copertura di 26 settimane ai fini del diritto a pensione, mentre ai fini della misura varranno sempre per 26 settimane con la relativa retribuzione effettivamente percepita.

Peccato che, se entrambe debbono raggiungere i 20 anni di contribuzione per il diritto a pensione, la lavoratrice pubblica dopo 20 anni di lavoro avrà raggiunto l’obiettivo, mentre la lavoratrice privata dovrà lavorare per 40 anni.

Se l’introduzione del sistema di calcolo contributivo ha annullato le differenze in merito alle regole di calcolo, non è così per le regole di diritto che trovano sempre applicazione nei termini sopra riportati.

Ebbene tale disparità di trattamento è già stata oggetto di diverse attività di contenzioso molto prima dell’ultima che si èchiusa con la sentenza di Padova.

Ci fu innanzitutto un contenzioso fra 4 assicurati e l’INPS che scaturì in due ordinanze del 11 aprile 2008 con cui la Corte d’Appello di Roma propose la questione alla Corte di Giustizia Europea; la Corte il 10 giugno 2010, previa riunione dei giudizi, pronunciò la sentenza (n° C‑395/08 e C‑396/08) nella quale rilevava un contrasto fra le disposizioni italiane e la Direttiva n° 97/81/CE, evidenziando anche quell’assurda differenza fra pubblico e privato precedentemente ricordata.

La sentenza si concluse con questa affermazione:

La clausola 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale allegato alla direttiva del Consiglio 15 dicembre 1997, 97/81/CE, relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale concluso dall’UNICE, dal CEEP e dalla CES, deve essere interpretata, con riferimento alle pensioni, nel senso che osta a una normativa nazionale la quale, per i lavoratori a tempo parziale di tipo verticale ciclico, escluda i periodi non lavorati dal calcolo dell’anzianità contributiva necessaria per acquisire il diritto alla pensione, salvo che una tale differenza di trattamento sia giustificata da ragioni obiettive.

Ebbene, sono passati oltre 6 anni da quella sentenza senza che nessuno si sia preoccupato di estenderne l’efficacia.

Anzi altri contenziosi sono arrivati fino alla Corte di Cassazione, la quale con due recenti sentenze (la n° 23948 del 24 novembre 2015 e la n° 24532 del 2 dicembre 2015) ha condiviso pienamente la sentenza della Corte di Giustizia ribadendo appunto il principio in base al quale il periodo di lavoro a part-time deve sempre considerarsi interamente utile ai fini del diritto a pensione indipendentemente dalle modalità con cui si svolge il rapporto di lavoro.

Come è facile intuire, quindi, la giurisprudenza ha fatto una affermazione molto semplice e alquanto logica: non possono essere trattati diversamente i dipendenti pubblici e i dipendenti privati nel momento in cui lavorano nelle medesime condizioni in un contratto di lavoro a part-time.

La sentenza di Padova, quindi, non è per nulla una novità, ma soprattutto non ha alcuna rilevanza per i lavoratori dipendenti dalla Pubblica Amministrazione i quali già hanno da sempre un trattamento in linea con quanto auspicato dalla Corte di Giustizia, dalla Corte di Cassazione, e da ultimo anche dal Tribunale di Padova.

Semmai la vicenda merita una ultima considerazione

Dopo l’approvazione del jobs-act (legge n° 183 del 10 dicembre 2014) eravamo ansiosi di conoscere i contenuti dei provvedimenti attuativi delle diverse deleghe ivi contenute e la nostra curiosità è stata in parte soddisfatta, anche se è stata accompagnata da alcune delusioni.

Fra queste, in particolare, ve n’è una che da alcuni anni attendevamo potesse trovare soluzione e che invece rappresenta una occasione persa.

Ci riferiamo alla vicenda relativa alla attività lavorativa prestata a part-time, soprattutto in modo verticale, e alla sua rilevanza ai fini del diritto alla pensione come sopra ampliamente illustrata. Questa era l’attesa che avevamo consegnato al jobs-act, salvo scoprire appunto la delusione.

Ovviamente tutto trae origine dal decreto legislativo n° 81 del 15 giugno 2015 inerente la disciplina dei contratti di lavoro il cui Capo II, Sezione I, articoli da 4 a 12, tratta appunto del lavoro a part-time, soprattutto dal punto di vista lavoristico, ma anche dal punto di vista previdenziale (articolo 11).

Ebbene, tale normativa modifica solo in parte le preesistenti disposizioni che, in recepimento di diverse direttive della Comunità Europea, avevano normato i rapporti di lavoro e fra questi, appunto, il part-time.

L’articolo 11, comma 4, del decreto legislativo n° 81/2015, però, è un banalissimo copia e incolla delle due precedenti normative ed il problema rimane irrisolto.

Ai dipendenti privati, quindi, non resta che continuare a calcare le aule dei Tribunali e a foraggiare le decine di avvocati che come sempre sono gli unici a guadagnarci sempre.

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